Descrizione

Tesina di Eugenio Manuelli
Liceo Scientifico Elio Vittorini
Anno Scolastico 2012-2013

sabato 1 giugno 2013

L'informazione in guerra

Un ruolo preminente nella preparazione e nella gestione di questa guerra da parte dei serbi venne svolto dalla gestione dell'informazione. Come ogni leader carismatico Milosevic intuì il grandissimo potenziale  di manipolazione della pubblica opinione di un'informazione falsata e sotto il controllo del regime. Fin dai tempi antecedenti alla guerra Milosevic basò la credibilità della sua campagna contro chi "minacciava" il popolo serbo sul controllo dei media. E' già stato citato il memorandum dell'accademia serba che denunciava un complotto per indebolire il popolo serbo.
Ma il vero e proprio capolavoro venne fatto per quanto riguarda la costruzione ad hoc di un mito del popolo serbo, della Serbia come nazione storicamente votata a dominare sugli altri popoli slavi. A questo fine si rispolverarono medievali eroi nazionali e antichi miti, la Serbia deve essere considerata come la naturale erede dei domini di Tito.
Milosevic riesce a formare dal nulla il mito della Serbia come paese chiamato ad una rivalsa sociale ed i suoi comizi infervorati fanno presa soprattutto sulle popolazioni rurali che vedono nelle mire espansionistiche del loro presidente una possibilità di riscatto nei confronti degli "imborghesiti di città".

Se mai ci fosse bisogno di una conferma dell'importanza che Milosevic e Karadzic diedero al controllo dell'informazione basti pensare che nel 1991, quando la guerra ancora non era arrivata in Bosnia, paramilitari serbo-bosniaci presero il controllo di 12 ripetitori televisivi il cui controllo venne affidato alla televisione di stato serba. L'obiettivo era quello di controllare l'informazione in vista dello scoppio della guerra in suolo bosniaco.

E infatti allo scoppio della guerra Karadzic non perde tempo e fonda un'agenzia di stampa e una rete televisiva che all'indomani della strage del mercato a Sarajevo non avrà problemi a dichiarare che: "erano state colpite solo un paio di persone e i bosniaci avevano attaccato loro stessi".

Il controllo della stampa colpì anche le centinaia di reporter venuti da tutto il mondo per seguire da vicino il conflitto. Vukovar, la città assediata e distrutta dai serbi in Croazia sarà la prima ad essere accessibile ai giornalisti poche ore dopo la sua capitolazione. Tutto il mondo potè così vedere le atrocità commesse dall'esercito federale ma fu anche una dimostrazione di ciò che i serbi erano pronti a fare; una sorta di palcoscenico per ciò che avverrà negli anni futuri in Bosnia.

La presenza di reporter di guerra in Jugoslavia è stata quasi più utile dell'intervento del'ONU, in tempi di connessione globale può avere più influenza un reportage su una strage piuttosto che un suo resoconto ufficiale.
"Karadzic si presentò al centro stampa con una falange di gorilla armati fino ai denti.
Era la prima volta che qualcuno portava dei mitra lì dentro.
Tutti tacquero, tranne una persona. Desa trevisan,
anziana giornalista locale e corrispondente del "Times", scattò come una tigre.
Sembrava una questione formale ma non era così. 
Era la dimostrazione sostanziale dell'imbroglio. Chiese difatti la Trevisan:"Se lei
è in un paese straniero, come osa entrarci armato? E se lei è nel suo paese, di che cosa ha paura?".
Erano bastate due paroline a dimostrare che il re era nudo. Karadzic non si inalberò,
rispose con giochini di parole. Ma il giorno dopo arrivò la risposta vera. 
Per strada qualcuno sparò alla Trevisan, colpendola alla mano. 
In Bosnia e Croazia sono morti tanti giornalisti. Un numero abnorme rispetto al'entità complessiva della strage.(...)
Non cerdo che ne siano morti così tanti perchè la categoria in Bosnia è diventata d'un tratto più imprudente che in Vietnam o in Libano. Credo piuttosto che sia diminuito il valore della loro vita.
In una guerra costruita sull'intossicazione dei mass media, il giornalista, comunque sia, era visto come un killer su commissione o un pericoloso rompiscatole.
Prima della Bosnia, dirsi giornalisti in guerra equivaleva ad esibire un salvacondotto.
In Bosnia, invece, scrivere "Press" sull'automobile significava farsi impallinare."
Paolo Rumiz, maschere per un massacro


Ed è proprio dai giornalisti "reduci" da questa guerra che viene un'importante presa di coscienza; essere giornalisti in guerra equivale ad avere un'enorme responsabilità. Forse la guerra nei balcani è stata un palcoscenico anche per questa categoria, messa per la prima volta così crudelmente davanti alla realtà della guerra la scelta tra il vero e "l'impressionante" è metafora di una scelta più grande ed importante, scegliere da che parte stare.

"Ti scontri con un potere- quello dell'informazione, il tuo- che chiede verità semplici,
superficiali, facilmente titolabili. Massacri, barbarie, stupri, bambini salvati, atti d'eroismo.
Vedi che la verità è sistematicamente occultata da un diluvio di sangue-cloroformio.
Ti accorgi che il sangue vero provoca assuefazione, è meno emozionante di quello falso di Apocalipse Now; più si ripete meno diventa importante come notizia; muove lo stomaco, non il cervello; mette sullo stesso piano aggredito e aggressore; impedisce di guardare al contesto; persino rassicura, perchè è un fatto biblico, più forte di noi, dunque tale da assolverci se non interveniamo."
Paolo Rumiz, maschere per un massacro

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